Il diario del redattore: Suggestioni da dietro le quinte, a partire da “Petrarca lettore”

di Franco Cesati Editore

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Volume di Atti di un convegno su Petrarca: finito di impaginare e correggere, spedito in prime bozze. Dizionario etimologico in inglese sulle Epistole di Dante: ciano riviste e licenziate, pronto per nascere. Due volumi AIPI in fase di seconde bozze: corretti e pronti per la prova di stampa. Volume di Atti sul Rinascimento e altri due volumi monografici: in fase di correzione di prime bozze agli autori. Settimana produttiva: sono quasi pronta per il prossimo libro. Prima però mi fermo un attimo e scrivo, penso e ripenso alle molteplici suggestioni che mi sono arrivate in questo periodo attraverso tutte le pagine che mi sono passate sotto gli occhi… mi prendo un attimo per soppesarle, fiutarle, riportarle alla memoria. Ho letto di Baricco, Anna Banti, Bianciardi, Ottieri, Camilleri, in un volume sulla crisi che attraversa la letteratura insieme ai tempi che corrono. Ho letto poi di Rimanelli, Carlo Abate, Carlo Levi, Vittorio Sereni, Igiaba Scego, in una miscellanea dello stesso convegno, questa volta dedicata ad autori in esilio e alla scrittura come pratica per ritrovare se stessi. Ho letto e ho letto, rivisto e corretto, limato le frasi, uniformato i testi alle norme, aggiustato le note e le bibliografie, corredato i testi di immagini. E intanto ho assimilato. Leggendo si cambia, si cresce: sembra banale dirlo ma ciò che siamo è, anche, ciò che leggiamo. Fa parte di noi e ci accresce, ci struttura, ci contiene e ci alimenta. La scrittura è patria, per l’appunto, di molti autori in esilio, diventa terreno noto e conoscibile che permette di trovare rifugio e riparo in situazioni di distanza fisica ed emotiva nei confronti del luogo in cui si è costretti a vivere o di situazioni emotive talvolta insostenibili. O, ancora, è capace di dare forma all’informe, in tempi di crisi tanto socioculturale comune quanto privata, intima, individuale. La scrittura è voce, e la lettura anche. E ce lo dimostra Petrarca, il maggior interlocutore che ho avuto in queste ultime settimane per riflettere su ciò che leggo e sui testi dei quali mi circondo, su cosa significhino per me e in che modo contribuiscano a ciò che sono. Partendo da un saggio di Paolo Rigo contenuto nel volume AIPI Narrarsi per ritrovarsi, ho avuto modo di confrontarmi con il tema della narrazione in esilio di Petrarca, esule sui generis. Scrive Rigo:

In definitiva, non resta che rifugiarci nel campo della retorica e constatare che forse Petrarca non avrà mai saputo quanto potesse sapere di sale il pane altrui, ma ha fatto del tema dell’esilio un motivo angolare della propria opera e della propria vita: a iniziare dall’apertura delle Familiares, dove, tra parole amare e piene di lodi per se stesso, vuole a tutti i costi ricordare di essere stato «concepito in esilio […] nato in esilio ad Arezzo, dove mio padre espulso dalla patria era fuggito». Un esilio che quindi era iniziato, insieme con i continui viaggi, fin da prima che nascesse. Narrare un esilio allora per ritrovare il tempo perduto, ora sì davvero antecedente straordinario di Proust, di una famiglia da cui fu separato, forse, troppo presto (la madre Eletta morì quando Petrarca aveva appena quattordici anni e il padre Petracco si spense sette anni dopo), vena preziosa di un mondo idilliaco e ideale che subì nei pochi episodi di presenza dell’autore l’evento in parte traumatico dell’esilio. Ecco allora che il Petrarca maturo, scrittore della lettera proemiale delle Familiares, attraverso la narrazione di quei giorni d’onta cerca di ritrovare lo spazio artificioso ma prezioso e l’era d’oro ove risiedeva il perfetto se stesso. […] Ecco che l’esilio, quindi, assolve allora la funzione di restituire attraverso la narrazione degli antichi fasti dell’Impero l’immagine perfetta su cui Petrarca amava ritrovarsi: quella di un cittadino lontano dalla sua città, Roma…

petrarcaQuesto primo incontro con il poeta laureato per eccellenza, immerso in un contesto di altri interessanti articoli su autori in esilio e sulla scrittura quale strumento per sopravvivere allo spaesamento che causa l’essere immersi in un contesto di alterità, ha aperto le porte alle riflessioni di un altro bel volume: Petrarca lettore, miscellanea degli Atti di un convegno tenutosi a Roma l’11 e 12 marzo 2014. I vari contributi indagano, come suggerito dall’eloquente titolo, l’immagine di Petrarca non già scrittore, quanto lettore, offrendone una panoramica dal taglio talvolta più filologico, altre più storico-artistico. E così, ho approfondito la conoscenza dei numerosi codici posseduti e letti dal poeta, degli altrettanti affreschi o dipinti che lo ritraggono non mentre scrive bensì mentre legge, con i libri spesso poggiati su una rota, strumento il cui utilizzo non è documentato in alcuno dei suoi testi, si spiega, ma che ben avrebbe potuto soddisfare la sua esigenza di avere sotto gli occhi più testi per poterli consultare o collazionare simultaneamente.

Come scrive nel saggio di apertura Monica Berté:

Sullo sviluppo, la mole e la qualità delle sue letture siamo ben informati. Sappiamo che imparò a leggere fuori d’Italia, ma da un maestro italiano e che ancora puer si entusiasmò della dulcedo e della sonoritas delle parole di Cicerone, pur non comprendendone il senso. Sappiamo, inoltre, che in età precocissima stese su un suo codice due liste di libri peculiares, la seconda delle quali è più corta della prima: è stato osservato come la scelta di sopprimere alcuni nomi dal secondo elenco non vada forse intesa nel senso di un restringimento delle sue preferenze di lettore, ma nell’ottica di un’ulteriore, più rigida demarcazione dei suoi domini bibliografici; in altre parole, Petrarca, nella seconda delle due liste, avrebbe registrato come peculiares solo i libri che sentiva di conoscere davvero, eliminando quelli di cui non aveva invece piena padronanza. E, del resto, non sorprende che fin da giovane Francesco avesse già molto chiaro che la lettura di un testo poteva avere vari livelli di profondità.

E proprio in relazione a questi differenti livelli di profondità si declina il ruolo di copista di Petrarca, per il quale era fondamentale la pratica di memorizzazione di un testo, che poteva avvenire non solo leggendolo e copiandolo contemporaneamente, ma anche e rileggendolo più volte o apponendovi segni che richiamassero l’attenzione, facendo sì che la presenza di numerosi marginalia sia, come spiega sempre Berté, “proporzionale al suo livello di continuità e familiarità con un testo, ossia al suo grado di approfondimento di esso”.

E ancora: interessante anche il tema del dialogo di Petrarca con i libri, così come la narrazione di un episodio di bibliomanzia, raccontato nella celebre Familiare IV 1 a Dionigi da Borgo San Sepolcro in cui l’autore descrive la propria ascesa al Ventoso in compagnia del fratello Gherardo e della sua inseparabile copia delle Confessioni di Sant’Agostino che, sfogliata a caso durante una sosta, si apre accidentalmente su di una pagina che sembra scritta apposta per lui.

Testi, codici, rimandi, letture incrociate: non è un caso forse che da questo incontro con Petrarca lettore, uomo dietro i libri, dietro le quinte di parole d’altri più che sul palcoscenico dei propri componimenti, mi sia venuta voglia di riprendere in mano un libro letto qualche anno fa, un romanzo stavolta. Si tratta de “L’amore in sé”, di Marco Santagata, celebre studioso di Petrarca non a caso più volte citato all’interno del volume degli Atti del convegno in questione.

78uSenza soffermarmi su di una recensione del libro, si tratta della storia di un docente universitario e di una sua particolare lezione di commento al sonetto di Petrarca La vita fugge e non s’arresta un’ora. Deviando dalle sue più consuete letture “filologiche”, questa volta il professor Cantoni si lascia andare ad un altro tipo di interpretazione, più intima ed esistenziale, cimentandosi in un’analisi del testo che immagina di maggiore interesse per i propri studenti. Leggendo alcune interviste in rete, scopro che l’autore ha dichiarato di aver voluto realizzare, con questa accorta operazione narrativa in cui l’intero sonetto di Petrarca è intercalato nella prosa a suggerire al protagonista alcuni ricordi della propria storia personale in un continuo rimando tra passato e presente, un’operazione che permettesse di trovare un equilibrio in grado di riportare la filologia al servizio della lettura e dei lettori, partendo dalla letteratura per parlare della vita.

Ecco che allora il cerchio si chiude, e torno a quel volume AIPI sulle narrazioni ai tempi della crisi su cui ho lavorato circa un mese fa. O meglio, questa volta la suggestione è figurativa, perché mi viene in mente l’immagine inserita nel saggio di Emira Gherib su Bianciardi, ben descritta e interpretata dalle parole dell’autrice:

Narrarsi per ritrovarsi: l’espressione ci ha fatto venire in mente il famoso disegno di Serguei, pubblicato nel quotidiano francese Le Monde nel 1997. Questa metafora della scrittura autobiografica presenta un personaggio con due grandi ferri da calza in mano che lavora a maglia un libro. E un disegno semplice, fatto con delle linee: quelle della testa del personaggio si intersecano, con parallele che vanno in tutti i sensi, mentre quelle del libro che ne esce fuori sono tutte ordinate. La testa-gomitolo si scioglie grazie alla scrittura che ordina la propria vita.

Scrivere, leggere. Per ordinare la vita, per dare un senso, una forma alle proprie angosce. Scrivere, leggere, per costruirsi e affermarsi, arricchirsi, crescere. Così Petrarca, “esule” confinato in una sua villa, si descrive in una sua lettera riportata da Girolamo Tiraboschi:

A somiglianza di uno stanco viaggiatore io raddoppio il passo a misura che veggo accostarsi il termine della mia carriera. lo leggo e scrivo giorno e notte, e coll’alternare a vicenda il leggere e lo scrivere mi vo sollevando. Queste sono tutte le mie occupazioni e tutti i miei piaceri.

Non che questo sia tutto, è chiaro. Ma è gran parte della vita di noi che leggiamo. Almeno della mia.

Ecco, sono pronta per il prossimo libro.

Silvia Rogai

 

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